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LA POESIA NELLA MUSICA

 

 

SALVATORE  QUASIMODO

 

 

 

ORA CHE SALE IL GIORNO

Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.

È cosí vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
per restare solo a ricordarti.

Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!

 

 

Voglio pensare al cuore che hai mentre danzi

Voglio pensare al cuore che hai mentre danzi,
e scavi le braccia e il capo sollevi come a donarti intera all’aria.
Quel cuore io cerco;
con esso raggiungerai il gesto preciso che ti farà alta nell’arte che ami,
e per la quale, come me, consumi ogni fuoco.
Ma come sei distante nel tempo!
Mi pare talvolta, e lo temo fino all’angoscia nella mia solitudine di uomo,
che tu possa scomparire come sei apparsa improvvisamente quella sera
con un po’ di fuoco nei capelli e sulla fronte.
Penso anche che andrai ora dove non posso vederti, ancora più distaccata da me.
La memoria mi aiuterà a soffrire ancor più;
perché in fondo noi siamo della razza di coloro
che hanno per legge questa assidua pena di cercare armonia
conquistando il dolore.

 

 

RIDE LA GAZZA, NERA SUGLI ARANCI 


Forse è un segno vero della vita: 
intorno a me fanciulli con leggeri 
moti del capo danzano in un gioco 
di cadenze e di voci lungo il prato 
della chiesa. Pietà della sera, ombre 
riaccese sopra l'erba così verde, 
bellissime nel fuoco della luna! 
Memoria vi concede breve sonno; 
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo 
per la prima marea. Questa è l'ora: 
non più mia, arsi, remoti simulacri. 
E tu vento del sud forte di zàgare, 
spingi la luna dove nudi dormono 
fanciulli, forza il puledro sui campi 
umidi d'orme di cavalle, apri 
il mare, alza le nuvole dagli alberi: 
già l'airone s'avanza verso l'acqua 
e fiuta lento il fango tra le spine, 
ride la gazza, nera sugli aranci. 

 

 

LA DOLCE COLLINA

Lontani uccelli aperti nella sera 
tremano sul fiume. E la pioggia insiste 
e il sibilo dei pioppi illuminati 
dal vento. Come ogni cosa remota 
ritorni nella mente. Il verde lieve 
della tua veste è qui fra le piante 
arse dai fulmini dove s'innalza 
la dolce collina d'Ardenno e s'ode 
il nibbio sui ventagli di saggina. 

Forse in quel volo a spirali serrate 
s'affidava il mio deluso ritorno, 
l'asprezza, la vinta pietà cristiana, 
e questa pena nuda di dolore. 
Hai un fiore di corallo sui capelli. 
Ma il tuo viso è un'ombra che non muta; 
(così fa morte). Dalle scure case 
del tuo borgo ascolto l'Adda e la pioggia, 
o forse un fremere di passi umani, 
fra le tenere canne delle rive. 

 


CHE VUOI PASTORE D'ARIA

Ed è ancora il richiamo dell'antico 
corno dei pastori, aspro sui fossati 
bianchi di scorze di serpenti. Forse 
dà fiato dai pianori d'Acquaviva, 
dove il Plàtani rotola conchiglie 
sotto l'acqua fra i piedi dei fanciulli 
di pelle uliva. O da che terra il soffio 
di vento prigioniero, rompe e fa eco 
nella luce che già crolla: che vuoi, 
pastore d'aria? Forse chiami i morti. 
Tu con me non odi, confusa al mare 
dal riverbero, attenta al grido basso 
dei pescatori che alzano le reti. 

 

 

IMITAZIONE DELLA GIOIA

Dove gli alberi ancora 
abbandonata più fanno la sera, 
come indolente 
è svanito l'ultimo tuo passo 
che appare appena il fiore 
sui tigli e insiste alla sua sorte. 

Una ragione cerchi agli affetti, 
provi il silenzio nella tua vita. 

Altra ventura a me rivela 
il tempo specchiato. Addolora 
come la morte, bellezza ormai 
in altri volti fulminea. 
Perduto ho ogni cosa innocente, 
anche in questa voce, superstite 
a imitare la gioia.

 

 

DI TE AMORE M'ATTRISTA

Di te amore m'attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d'aranci,
o d'oleandri, sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi ne tocca la foce.
Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d'altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.

 

 

E  LA STRADA MI DAVA LE CANZONI

E la strada mi dava le canzoni,
che sanno di grano che gonfia nelle spighe,
del fiore che imbianca gli uliveti
tra l'azzurro del lino e le giunchiglie;
risonanze nei vortici di polvere,
cantilene d'uomini e cigolìo di traini
con le lanterne che oscillano sparute
ed hanno appena il chiaro di una lucciola


 

HO DIMENTICATO IL MARE

Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carruo trema nel fumo delle stoppie
ho dimenticato il passo degli aironi, delle gru
nell'aria dei verdi altipiani
per le terre i fiumi della Lombardia.

 

 

LA MIA GIORNATA PAZIENTE

La mia giornata paziente
a te consegno, Signore,
non sanata infermità,
i ginocchi spaccati dalla noia.

M'abbandono, m'abbandono:
ululo di primavera,
è una foresta
nata nei miei occhi di terra.

 

 

CON UNA FRONDA DI MIRTO

Con una fronda di mirto giocava
ed una fresca rosa;

e la sua chioma
le ombrava lieve e gli omeri e le spalle.

 




DAVANTI AL SIMULACRO D'ILARIA DEL CARRETTO

Sotto tenera luna già i tuoi colli, 
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse 
e turchine si muovono leggere. 
Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio 
perde colore, e ogni ora s'allontana, 
e il gabbiano s'infuria sulle spiagge 
derelitte. Gli amanti vanno lieti 
nell'aria di settembre, i loro gesti 
accompagnano ombre di parole 
che conosci. Non hanno pietà; e tu 
tenuta dalla terra, che lamenti? 
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto 
forse è il tuo, uguale d'ira e di spavento. 
Remoti i morti e più ancora i vivi, 
i miei compagni vili e taciturni. 

 

 

CAVALLI DI LUNA E DI VULCANI

Isole che ho abitato
verdi su mari immobili.

D'alghe arse, di fossili marini
le spiagge ove corrono in amore
cavalli di luna e di vulcani.

Nel tempo delle frane
le foglie, le gru assalgono l'aria:
in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;

le colombe volano 
dalle spalle nude dei fanciulli.

Qui finita è la terra:
con fatica e con sangue
mi faccio una prigione.

Per te dovrò gettarmi 
ai piedi dei potenti,
addolcire il mio cuore di predone.

Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio
infante a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi:

ivi la latomia d'arancio greco
feconda per gli imenei dei numi.

 

 

VICOLO

Mi chiama talvolta la tua voce
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:

una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch'erano a sera
un dondolio di lampade
dalle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza.

Altro tempo: un telaio batteva nel cortile
e s'udiva nella notte un pianto
di cuccioli e bambini.

Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch'è paura
di restare sole nel buio.

 

 

MOBILE D'ASTRI E DI QUIETE

E se di me gioia ti vince,
è nodo d'ombre.
Non altro ora consola
che il silenzio: e non ci sazia
volto mutevole d'aria e di colli,
giri la luce i suoi cieli cavi
a limite di buio.

Mobile d'astri e di quiete
ci getta notte nel veloce inganno:
pietre che l'acqua spolpa ad ogni foce.

Bambini dormono ancora nel tuo sonno;
io pure udivo un urlo talvolta
rompere e farsi carne;
e battere di mani ed una voce
dolcezze spalancarmi ignote.

 

 

OBOE SOMMERSO

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un oboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

In me si fa sera:
l'acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

 

 

SPECCHIO

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul fosso.
E tutto sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.

 

 

GIA' LA PIOGGIA E' CON NOI

Già la pioggia è con noi,
scuote l’aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci;
il fieno odora oltre i recinti degli orti.

Ancora un anno è bruciato,
senza un lamento, senza un grido
levato a vincere d’improvviso un giorno.

 

 

ALLE FRONDE DEI SALICI.

E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

 

 

UOMO DEL MIO TEMPO

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
Uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
Con le ali maligne, le meridiane di morte,
-T'ho visto-dentro il carro di fuoco, alle forche,
Alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
Con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
Senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
Come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
Gli animali che ti videro per la prima volta.


E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all'altro fratello:
"Andiamo ai campi." E quell'eco fredda, tenace,
È giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
Le loro tombe affondano nella cenere,
Gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 

 

COLORE DI PIOGGIA E DI FERRO


Dicevi: morte, silenzio, solitudine;
come amore, vita. Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
e il tempo colore di pioggia e di ferro
è passato sulle pietre,
sul nostro chiuso ronzio di maledetti.
Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
entri negli occhi, prima che altro vento
salga e altra ruggine fiorisca.


 


S'ODE ANCORA IL MARE

Già da più notti s'ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d'una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d'uccelli delle torri, che l'aprile
sospinge verso la pianura. Già
m'eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un'eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.




SENZA MEMORIA DI MORTE

Primavera solleva alberi e fiumi;
la voce fonda non odo,
in te perduto, amata.

Senza memoria di morte,
nella carne congiunti,
il rombo d'ultimo giorno
ci desta adolescenti.

Fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano...





FATTA BUIO ED ALTEZZA

Tu vieni nella mia voce:
e vedo il lume quieto
scendere in ombra a raggi
e farti nuvola d'astri intorno al capo.
E me sospeso, a stupirmi degli angeli,
dei morti, dell'aria accesa in arco.

Non mia; ma entro lo spazio
riemersa, in me tremi,
fatta buio ed altezza.



 

IL MIO PAESE E L'ITALIA


Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.


Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

 

 

NASCITA DEL CANTO
 
Sorgiva: luce riemersa:
foglie bruciano rosee.
 
Giaccio su fiumi colmi
dove son isole
specchi d'ombre e d'astri.
 
E mi travolge il tuo grembo celeste
che mai di gioia nutre
la mia vita diversa.
 
Io muoio per riaverti,
anche delusa,
adolescenza delle membra
inferme.

 

 

VERDE DERIVA
 
Sera: luce addolorata,
pigre campane affondano.
Non dirmi parole: in me tace
amore di suoni, e l'ora è mia
come nel tempo dei colloqui
con l'aria e con le selve.
 
Sapori scendevano dai cieli
dentro acque lunari,
case dormivano sonno di montagne,
o angeli fermava la neve sugli ontani,
e stelle ai vetri
velati come carte d'aquiloni.
 
Verde deriva d'isole,
approdi di velieri,
la ciurma che seguiva mari e nuvole
in cantilena di remi e di cordami
mi lasciava la preda:
nuda e bianca, che a toccarla
si udivano in segreto
le voci dei fiumi e delle rocce.
 
Poi le terre posavano
su fondali d'acquario,
e ansia di noia e vita d'altri moti
cadeva in assorti firmamenti.
 
Averti è sgomento
che sazia d'ogni pianto,
dolcezza che l'isole richiami.

 

 

 

 

AUTUNNO
 
Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d'alberi e d'abissi.
 
Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
 
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.

 

 

FRESCHE DI FIUMI IN SONNO
 
Ti trovo nei felici approdi,
della notte consorte,
ora dissepolta
quasi tepore d'una nuova gioia,
grazia amara del viver senza foce.
 
Vergini strade oscillano
fresche di fiumi in sonno:
 
E ancora sono il prodigo che ascolta
dal silenzio il suo nome
quando chiamano i morti.
 
Ed è morte
uno spazio nel cuore.

 

 

 

DAMMI IL MIO GIORNO
 
Dammi il mio giorno;
ch'io mi cerchi ancora
un volto d'anni sopito
che un cavo d'acque
riporti in trasparenza,
e ch'io pianga amore di me stesso.
 
Ti cammino sul cuore,
ed è un trovarsi d'astri
in arcipelaghi insonni,
notte, fraterni a me
fossile emerso da uno stanco flutto;
 
un incurvarsi d'orbite segrete
dove siamo fitti
coi macigni e l'erbe.

 

 

        

 

    

LETTERA ALLA MADRE


«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»

 

 

LAMENTO PER IL SUD


La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve...
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell'aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l'uomo grida dovunque la sorte d'una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l'eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d'acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d'inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d'amore senza amore.

 

 

VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

 


 

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